Perché parlare ancora di semplicismo e dis-intermediazione

Tra i protagonisti dell’ultimo raduno di Pontida non è di certo passato inosservato lo slogan, gigantesco, che campeggiava sul palco: “La forza di essere liberi”; parole, francamente, scontate.

La banalizzazione del linguaggio politico non è certo problema recente e si può dire, anzi, che tale processo avanzi imperterrito già all’indomani di tangentopoli. Si parla sommariamente di “semplicismo”, vale a dire quella tendenza a voler necessariamente appiattire il superamento di un problema in ciò che sembrerebbe essere la sua stessa risoluzione – “non ci sono più soldi? stampiamone di più”; “ci sono troppi migranti? che si respingano” e via discorrendo – ignorando, più o meno consapevolmente, i vari motivi per i quali un problema è, per l’appunto, tale.

Sicuramente il semplicismo è un diretto corollario (ma potrebbe anche essere il contrario) della c.d. dis-intermediazione, intesa come fenomeno che porta all’eliminazione dell’intermediario tra le parti. Quanto appena citato implica che un rapporto, dapprima trilaterale, si contragga, in seguito, in uno bilaterale; banalmente, si pensi all’e-commerce, attraverso il quale il produttore può trattare direttamente con il consumatore finale. Mutatis mutandis la dis-intermediazione è fenomeno e si evidenzia, in continua evoluzione, anche nel rapporto tra politica ed elettorato.

Ed è qui che i due fenomeni si intrecciano: la comunicazione è, infatti, semplificata e, laddove possibile, (cioè, ca va sans dire, sempre) ridotta, in virtù del superiore fine di poter mettere la politica a diretto “servizio del popolo”, delegittimando, però, chiunque possa obbiettare, appiattendo in tal modo, se non del tutto neutralizzando, qualsiasi opinione contraria.

In un tale contesto ecco allora che il politico che aspiri a posizioni leaderistiche, scavalcando gli ordinari canali intermediari in favore di mezzi sempre più liquidi,“self service”, semplicistici, diventa, invece, “media” e giornalista di se stesso, con la conseguenza che, il più delle volte, il leader di oggi si trovi a diffondere notizie e dati appositamente confezionati per rendere inattaccabile la propria ricetta, checché fantomatici “professoroni” e/o “gufi” si azzardino a dire il contrario. Il meccanismo risulta tarato su un piano simil-paternalistico ed ogni forma di comunicazione avviene nella maniera più “elector-friendly” possibile. Semplicismo e dis-intermediazione determinano, allora, un allargamento spropositato ed indiscriminato della platea destinataria delle informazioni; si moltiplicano i riferimenti generici alla “gente” o al “popolo” e la comunicazione si fonda su una logica familistica o, peggio, cameratistica/sportiva (“il capitano”, “l’avvocato del popolo”), in cui il leader è prima di tutto protettore e “grande semplificatore” e come tale non può comunicare che con apoditticità, enfasi, egocentrismo, rassicurazione.

Il linguaggio è permeato da frasi lineari prive di complicazioni o circonlocuzioni involute che provocherebbero solo disorientamento interpretativo: “un deliberato parlar semplice di tutti i giorni, disseminato anche di cliches e locuzioni popolareggianti” (Desideri, “La comunicazione politica: dinamiche linguistiche e processi discorsivi”) fatto esclusivamente di opinioni di facile comprensione ma soprattutto ovvie . Una “materializzazione delle metafore” che, giusto nell’ultima esperienza di governo, si è resa particolarmente evidente, ad esempio, e senza pretesa di esaustività, nella stipula del (ed Hobbes ancora grida vendetta) decantatissimo “contratto di Governo” (trovata, questa, assolutamente non nuova, basti pensare ai due antecedenti più illustri, il Berlusconiano “contratto con gli italiani” e ancora prima il “contratto con l’America” dei Repubblicani per le elezioni del 1994).

Tuttavia, senza voler ridursi ad un elenco di casi concreti, è chiara la conseguenza principale ed inesorabile del binomio dis-intermediazione-semplicismo; estromettendo, infatti, il diaframma critico e, più o meno consapevole, precedentemente posto tra leader politici ed elettorato, si è avuto e si ha tuttora una graduale e sempre più insostenibile diluizione della qualità (e della verità) della comunicazione politica, situazione che, ovviamente, ha compromesso la percezione della realtà da parte dei cittadini, sempre più arroccata in posizioni accomodanti ma soprattutto compatibili con quanto si vuole pensare e vedere e da qui l’incapacità, se non l’astio, di confrontarsi con il meno semplice contesto reale.

Mi sembra a questo punto opportuno riportare il celebre discorso delle “bubbles” pronunciato da Obama accomiatandosi da Presidente: “For too many of us, it’s become safer to retreat into our own bubbles […] surrounded by people who look like us and share the same political outlook and never challenge our assumptions […] and increasingly, we become so secure in our bubbles that we accept only information, whether true or not, that fits our opinions, instead of basing our opinions on the evidence that’s out there.

Concludendo e ricollegandomi al discorso delle primissime righe, probabilmente esagera chi ritiene che in Italia ci sia bisogno di più politici alla “hard, long, slog” di Churchillina (prima) e Tatcheriana (poi) memoria; tuttavia, non si può dire altrettanto di chi ritiene che si debba,ormai fare a meno di coloro che con tanta magniloquenza si professano appartenenti ad una schiera di donne e uomini liberi, che liberi poi non si sa da cosa; certamente non dalla retorica che spesso, in questi casi, si trasforma in ipocrisia, perdita di senso critico o, peggio, in menzogna. D’altra parte, cosa sarebbe altrimenti la libertà se non il coraggio di uscire dalla propria comfort zone e di rompere la “bubble” dentro la quale ci si è rinchiusi?

 

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