Rapporti internazionali

Ho sempre ritenuto che i rapporti tra stati dovessero essere considerati come rapporti tra individui: improntati al reciproco rispetto, con scambi di prestazioni regolati dal meccanismo della domanda e dell’offerta, con simpatie o antipatie determinate da vicende passate e con il diritto da parte di ciascuno stato di fare a casa propria quanto riteneva meglio, per sua tradizione, cultura, ricchezza. Per questo motivo ho sempre considerato negativamente i tentativi da parte di qualche stato che si ritenesse più avanzato di esportare i propri valori e ordinamenti in società giudicate culturalmente arretrate. Le singole società si danno ordinamenti che scaturiscono dal sistema di valori incarnato nella popolazione da tradizioni secolari e a sua volta collegato al reddito conseguito nonché alle sue modalità di produzione e distribuzione. Il ricorso ai valori in politica internazionale conduce a risultati che nella storia si sono mostrati disastrosi. Il patriottismo identitario ha portato, ad esempio, alla dissoluzione dell’impero asburgico, che univa diverse società europee, e alle guerre mondiali dello scorso secolo; lo stesso nazionalismo identitario ha portato alla cancellazione dell’impero ottomano, nel quale convivevano tre religioni monoteiste con centri culturali oggi scomparsi; che dire poi degli eccezionali valori di uguaglianza in nome dei quali si è fatto scomparire l’impero russo e si è generata la dittatura sovietica?

Da tutto ciò la mia valutazione che ciascuno avesse il diritto di conservare i suoi valori, a condizione che ciò non mettesse in predicato la convivenza pacifica con gli altri stati.

La recente vicenda della guerra in Ucraina (preceduta ahimè da interventi americani ed europei in Asia e Nord Africa) mi induce a ripensare la mia conclusione circa l’irrilevanza da attribuire, ai fini della convivenza pacifica, alle differenze di valori, ideologie e ordinamenti che caratterizzano gli stati con i quali conviviamo. Il tema di fondo è quello della violenza e della pace. Dovremmo valutare se vi sono ordinamenti che contengono in se stessi elementi che portano alla violenza: certamente gli ordinamenti autoritari contengono questo pericolo, ma anche le democrazie non ne sono esenti. L’esistenza del libero mercato internazionale è sicuramente elemento di pace, ma lo stesso Hayek riconosceva che il libero mercato può coesistere con regimi politici autoritari. Ammesso poi che si possa concludere (superando i dubbi di Condorcet e Arrow) che l’ordinamento democratico resta la migliore ancora di salvezza, che fare in un mondo nel quale i modelli autoritari sono largamente presenti in Asia e in Africa e dove spesso le democrazie (SudAmerica) si presentano solo come abito formale? L’ordinamento, benché importante, non può essere la sola discriminante: paradossalmente uno stato autoritario, il Vaticano, è il maggior portatore di pace nel mondo.

Dovremmo, ritengo, trarre la conseguenza che una regola assoluta non ci può essere, ma che dovremmo vigilare con attenzione ponendo in essere sistemi di alleanze e cooperazione internazionale per seguire tempestivamente l’eventuale emergere di malattie degenerative e interloquire con la necessaria dialettica con i diversi stati in forme non violente (misure anche economiche) ma meno passive di quanto accada con l’ONU.

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