Alcune osservazioni sulla giustizia italiana

  1. Premessa

La giustizia è un servizio pubblico di fondamentale importanza che lo Stato ha il dovere di garantire a tutti i cittadini per il mantenimento della pace sociale. Il livello di efficienza della giustizia, inoltre, è un fattore determinante per la crescita di un Paese. Un sistema processuale non tempestivo, infatti, produce effetti dannosi sul piano sociale. La giustizia italiana sta purtroppo attraversando (e questo oramai accade da troppi anni) un periodo di profonda crisi.

Da questo punto di vista l’Italia sembra essere il fanalino di coda dei Paesi occidentali. I ritardi e le lungaggini del processo specialmente di quello civile, sono un’eredità del passato e non sono di agevole soluzione nemmeno negli altri Paesi europei come emerge dagli incontri organizzati dalla Rete dei Presidenti delle Corti Supreme dell’Unione europea. Ma nel nostro Paese sono tanti i problemi da affrontare e delicati i nodi da sciogliere per consentire ai cittadini di ottenere risposte rapide ed efficaci. Lo scontro politico ed istituzionale ancora in atto contribuisce a rallentare una riforma della giustizia per noi non più dilazionabile.  Il carico di lavoro, in molte sedi giudiziarie, è diventato da tempo assolutamente ingovernabile e, per fronteggiarlo, è inevitabile ricorrere alla creazione di sistemi alternativi di risoluzione delle controversie che facciano da filtro alla giustizia ordinaria.

 

  1. Inefficienza della giustizia e sviluppo economico: La questione.

Il problema del peso dell’inefficienza della giustizia, in particolare di quella civile sulla crescita dell’economia italiana va riproposto con forza in ogni sede istituzionale. Gli indici economici mostrano, infatti, che l’Italia arranca nell’agganciare la ripresa economica dei partner europei e, un utile (quanto necessario) contributo deve arrivare sul fronte della macchina amministrativa della giustizia. I dati dimostrano come ci sia molto da fare. Le cause pendenti relative a fallimentare, contenzioso, lavoro, famiglia e volontaria giurisdizione sono al 31.12.2016 oltre 3,8 milioni (di cui 570.208 relativi ad esecuzioni fallimentari).

 

Inoltre, sono necessari circa 1.600 giorni (4,3 anni)  per una sentenza definitiva[1]. Il governatore della Banca d’Italia nelle sue “Considerazioni finali”[2]ha attribuito alla lunghezza dei processi civili la perdita di oltre un punto di Pil per la nostra economia.

Uno studio del Cer-Eures “Giustizia civile, imprese e territori”, dell’ottobre del 2017, presentato da Confesercenti ha calcolato che questa Giustizia “lumaca” fa perdere all’Italia circa 40 miliardi di euro penalizzando le imprese in termini di competitività. In termini generali, la lentezza dei processi ed il malfunzionamento dei tribunali costano all’Italia circa 40 miliardi di euro, cifra che corrisponde a 2,5 punti del Pil. La questione è stata posta anche dalla Commissione Europea ed il Consiglio che, nel formulare le raccomandazioni per l’Italia in adempimento della Strategia Europa 2020, hanno asserito: “… La lunghezza delle procedure nell’esecuzione dei contratti rappresenta un ulteriore punto debole del contesto imprenditoriale italiano. (….) Si raccomanda di (…) introdurre misure per aprire il settore dei servizi a un’ulteriore concorrenza, in particolare nell’ambito dei servizi professionali (…) e ridurre la durata delle procedure di applicazione del diritto contrattuale[3].

Le analisi ricordate evidenziano come l’Italia segna il passo rispetto agli altri paesi avanzati sotto diversi aspetti: dal punto di vista dei tempi, come dimostrano le analisi della durata media in giorni dei processi civili legati ad inadempimento contrattuale (peraltro gli indicatori di efficienza – capacità di smaltimento dell’arretrato e durata media dei processi – segnano grandi differenze tra i Tribunali della Penisola, con i migliori generalmente posti al Nord ed i peggiori al Sud); in quello dei costi per l’assistenza legale legati al procedimento (in proporzione al valore del contendere) e di accesso alla giustizia civile nonché circa il costo (sempre storicamente più alto) per il recupero di una garanzia (quasi un terzo del bene); per quanto riguarda la questione delle differenti pronunce tra diversi Tribunali per fattispecie simili.

I commenti  pubblici sulla stampa e nel parlamento non sembrano tener conto della questione e  dibattono invece su fatto se sia vero o meno che i tempi biblici dei nostri processi civili giocano un ruolo determinante in questa preoccupante performance o se sia vero che le aziende non crescono e non innovano per via di un problema che nella coscienza comune sembra interessare più il vivere civile che le scelte d’impresa.

[1] www.giustizia.it.

[2] www.bancaditalia.it

[3] Vedi, inoltre, lo studio dell’Ufficio parlamentare di bilancio dell’agosto  2016 “L’efficienza della giustizia civile e la performance economica”.

 

Le domande, tuttavia, trovano risposta solida nei frequenti report della Banca Mondiale, ed evidenziano che una giustizia lenta rende più difficoltoso ottenere il credito bancario e deprime il livello degli investimenti[1]. In particolare, quanto alle difficoltà per le banche di erogare prestito a causa di un sistema legale inadeguato, la ragione va ricercata nel fatto che le banche tradizionalmente hanno temuto di dover spendere troppo e attendere troppo a lungo prima di poter pignorare le garanzie, in caso di default; dunque le banche tendono a essere restie nel prestare ed erogare alle imprese gli investimenti necessari a farle crescere. Oggi il problema si palesa in tutta evidenza, se si considera la questione dei crediti deteriorati  nella pancia di molte grandi e piccole banche italiane (questione degli NPL) il cui basso valore è imputabile anche al  tempo di smaltimento dei crediti, che ne abbassa di molto il valore di carico.

Ma oltre il problemi citati ci sono quelli distorsivi indotti nel sistema. Infatti, il sistema economico  e le imprese “hanno reagito a questa profonda inefficienza, tutta italiana, attraverso l’alterazione di comportamenti, scelte, strutture aziendali volti a minimizzare il rischio di incorrere in giudizio, considerando tra l’altro che il processo civile non interessa soltanto il “funerale” di un contratto, ma anche il modo in cui è inizialmente concepito: una giustizia inefficiente compromette il potere di minaccia necessario alla regolarità delle transazioni e induce le imprese a preferire partner commerciali che offrono prodotti a prezzi più elevati, contro maggiori garanzie di adempimento.

Gli effetti sul sistema economico sono vari, ma sinteticamente si possono riassumere nella: 1)  la riduzione della natalità delle imprese; 2)  in un generale rigido sistema di fedeltà di partnership nei rapporti commerciali, a scapito di una migliore concorrenzialità sul prezzo dei beni e servizi; 3)  nel prevalere di forme o di aggregazioni d’impresa – quali le imprese familiari o i distretti industriali – in cui i contratti sono resi sicuri da forme di sanzione alternative alla giustizia civile.

Poiché le scelte non sono soltanto orientate da criteri di efficienza economica, ma anche dalla necessità di evitare le conseguenze di una disfunzione del sistema, il risultato complessivo è quello di una perdita di competitività del sistema Italia.

[1] Per il primo aspetto, fonte Banca Mondiale, Doing Business in 2006, in www.doingbusiness.org., e per il resto: Banca Mondiale, Doing Business in 2005, in www.doingbusiness.org.

Del dissesto della nostra giustizia civile non vi è uno specifico colpevole, ovvero, possono individuarsi più responsabili. La logica, infatti, della massimizzazione dell’interesse individuare che guida i comportamenti umani trova nelle regole vigenti un percorso che conduce inevitabilmente verso una perdita netta del benessere collettivo. Si tratta dunque di rivedere le regole del gioco, per gli attori. In primo luogo avvocati e magistrati e, dunque, anche per utenti finali del servizio giustizia.

Dunque, a nostro modo di vedere, non sono colpevoli, evidentemente, gli avvocati, chiamati a utilizzare i mezzi previsti dall’ordinamento per tutelare i propri clienti o i magistrati, chiamati ad applicare leggi con ampia delega a loro rimessa, gli utenti del servizio quando ne abusano ricorrendo in giudizio non per risolvere una questione giuridica incerta, ma per spuntare una dilazione di pagamento o una transazione favorevole. La radice del problema (e la sua soluzione) dovrebbero essere ricercati nel complesso degli incentivi a condotte distorte attualmente prodotti dall’insieme delle regole che ruotano intorno al processo e, dunque, in norme che adeguatamente governino gli interessi contrapposti indirizzandoli verso comportamenti virtuosi.

Le vie da percorrere dipendono, in primo luogo, da una scelta fondamentale: se si vuole o meno mantenere l’ampio livello di garanzie che attualmente il nostro sistema offre a chi va in giudizio o se, viceversa, siamo disposti a ridurle. La riduzione delle garanzie dovrebbe necessariamente passare per i magistrati su cui incidere con incentivi, policy e così via, trasformandoli di fatto in dominus esclusivi del processo.  Se, viceversa, si voglia conservare il sistema di garanzie, allora gli avvocati sono la chiave di volta su cui operare. Considerato che loro hanno “gli strumenti più efficaci” per filtrare le richieste delle parti e far sì che delle garanzie si faccia uso e non abuso, uno degli strumenti praticabili è quello della formula di compenso a forfait, certamente il modo più neutro ed efficace (dal punto di vista dell’economista) di premiare i comportamenti che vanno nella direzione giusta.

Sta di fatto che, oggi, se un avvocato usa in modo misurato le garanzie offerte al cliente, alleggerisce il fascicolo e porta a casa una rapida vittoria, viene pagato di meno e lo stesso accade se raggiunge una rapida transazione, mentre “allungare” il processo può permettere un compenso maggiore.

Anche qui si può prendere a prestito l’esperienza di altri paesi come il caso della Germania, ma anche da quella parte dei processi italiani del lavoro in cui l’assistenza legale è offerta dal sindacato, che, per prassi, ha accordi con l’assistito di tipo forfettario. Per altro verso, per rendere più efficiente il rapporto tra giustizia ed imprese, la Confesercenti ha proposto di lavorare su due fronti: per snellire i procedimenti, sarebbe utile separare i giudici che si occupano di contenzioso giuslavoristico da quelli, invece, dedicati al contenzioso previdenziale mentre, per limitare gli abusi dei contratti pirata, sarebbe necessario coinvolgere il Cnel e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con il primo destinato ad avere un potere  “certificatorio” sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali, mentre il secondo quello di sanzionare i soggetti che non applicano i Ccnl sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative.

 

  1. Un diverso approccio

Ma sono interventi sufficienti quegli interventi riformatori del “sistema giustizia” che si concentrino sullo smaltimento dell’arretrato e sulla ragionevole durata del processo?

Per non complicarci troppo la vita, limiterei le nostre argomentazioni alla sola giustizia civile, per via del minore impatto sui diritti più “profondi” che coinvolgono la natura umana.  Oggi la giustizia viene comunemente interpretata come equità, equilibro tra interessi diversi e contrapposti. Se cosi stanno le cose, conseguentemente, è naturale pretendere che l’amministrazione della stessa si adegui a tale principio.

Mi spiego meglio, e per farlo, riprendo un esempio tratto dal  libro di John Rawls, il padre del c.d. neo-contrattualismo, dal titolo emblematico: “una teoria della giustizia[1]. Il filosofo immagina un gruppo di individui, privati di qualsiasi conoscenza, ovvero, in una posizione originaria e sotto un velo d’ignoranza. In condizioni simili, sostiene Rawls, anche se gli individui fossero  totalmente disinteressati gli uni rispetto alla sorte degli altri, le parti sarebbero costrette a scegliere una società gestita secondo criteri equi. Dice Rawls: “ogni persona ha un uguale diritto alla più estesa libertà fondamentale, compatibilmente con una simile libertà per gli altri” ed in secondo luogo, “le ineguaglianze economiche e sociali sono ammissibili soltanto se sono per il beneficio dei meno avvantaggiati”.  Dati tali principi originari lo scontro  porterebbe ad un risultato equo: nella società nessuno avrebbe né troppo, né troppo poco. Se questa è la situazione ottimale cui tende la natura umana, allora la giustizia per soddisfare tutti deve essere tale da garantire l’equità, senza scontentare troppi individui della collettività.  Ad approfondire tale concezione, per la verità, sono tanti i dubbi che rimangono. Uno per tutti: se la collettività è la somma degli individui e se gli individui percepiscono l’equità in relazione alla educazione, anche in tale società l’equilibrio sarà mutevole e anche le ineguaglianze tollerabili dipenderanno dal momento storico.

Insomma, non esisterebbe comunque un criterio universale e condiviso, ma – a voler essere accondiscendenti con tale impostazione – un semplice criterio di massima cui ispirarsi. Ma facendo nostre, per spirito di semplificazione, l’idea di giustizia giusta sopra abbozzata, torniamo adesso al fulcro del discorso, ovvero, al non funzionamento della giustizia civile Italia.   Ritorniamo dunque alla premessa da cui eravamo partiti.

Delle tante possibili cause – a sentire gli esperti – la principale sembra derivare dall’alto numero delle istruttorie che pendono nei tribunali italiani. Tali giacenze, hanno generato, per via della difficoltà di un rapido smaltimento, ulteriori ricorsi ingenerati proprio da tale lentezza. Insomma la causa del tracollo sembrerebbe la lentezza nella trattazione delle cause, che spinge chi è in torto a preferire la via del giudizio civile, invece che pagare il proprio debito.

L’idea è che alla fine, male che vada, si pagherà meno del dovuto[2].  Spieghiamoci meglio con un esempio. Supponiamo un debitore Antonio che per comodità chiamiamo A ed un creditore Bruno (ovvero, B) ed un danno del valore pari ad un capitale (C) pari a 20 e supponiamo che A sia consapevole che la somma C sia equa e dovuta a B.

Dunque, le scelte possibili di A sono: 1. ammettere il debito e pagare la somma; 2. negare il debito ed indurre B a citarlo in giudizio. Nel caso 2 si possono verificare due scenari: 2a. il processo si chiude con una condanna al pagamento della somma C a carico di B; 2b. il processo termina senza sentenza perché A e B si accordano per una somma inferiore a C oppure perché B abbandona la causa. Di fronte alle alternative si ha: – se A sceglie la prima alternativa, paga tutta la somma C e perde gli interessi di mercato sulla somma C per tutto il tempo della durata del processo.  Le alternative, se A nega il debito, sono ricordiamolo due. Ebbene se sceglie 2a paga tutta la somma C, gli interessi al tasso legale della somma C per tutta la durata del processo e una parte delle spese processuali di B. Ora, se gli operatori hanno come obbiettivo la massimizzazione del loro profitto,  A preferirà 1 a meno che la differenza tra il tasso di interesse di mercato e quello legale non è tale da rendere il costo opportunità di 1 uguale o superiore al costo atteso di 2°. Se sceglie 2b, A paga parte della somma C o nulla. A preferirà 2b a meno che la probabilità che B accetti un accordo o rinunci alla causa sia inferiore alla probabilità che si arrivi ad una condanna al pagamento di tutta la somma C con gli interessi legali della somma per la durata del processo.

Dato che non è possibile prevedere esattamente se si verificherà lo stato 2a oppure lo stato 2b le alternative possibili restano 1 e 2. Comunque sia la scelta  è in funzione del tasso di interesse di mercato e della probabilità delle due alternative possibili. L’incertezza è connessa alle previsioni che A deve formulare sulla durata del processo, all’andamento delle variabili rilevanti per decidere ed alla stima delle previsioni di B in merito alle medesime variabili. Il valore delle probabilità associate agli eventi è in funzione della forza contrattuale di B che, a sua volta, dipende da quattro variabili: 1. la quota delle spese processuali che gli vengono rimborsate da A, 2. il tasso di interesse legale, 3. il tasso di interesse di mercato, 4. la durata attesa del processo.

Tra queste la maggiore incertezza per A è data dalle attese di B sull’andamento del tasso di interesse di mercato; un alto grado di imprevedibilità circa l’andamento dei tassi di mercato, per il periodo di durata della causa, introduce un’elevata incertezza circa le previsioni della controparte in merito alle perdite e ai guadagni legati al termine del giudizio, rendendo lo spazio di contrattazione talmente ampio da precludere l’accordo tra le parti.  Proseguendo in questa analisi di può dimostrare che vi è una soglia di durata dei processi oltre la quale il mercato non può sopravvivere poiché nessuno ritiene profittevole adempiere ai contratti.

Proseguendo in questa analisi di può dimostrare che vi è una soglia di durata dei processi oltre la quale il mercato non può sopravvivere poiché nessuno ritiene profittevole adempiere ai contratti. Bene capito come la questione sia potuta degenerare, occorre affrontare adesso il problema principale.

Ma perché si è creato l’ingolfo, e cioè, qual è la causa originaria sulla base della quale si è innestato il circolo pernicioso ?

Una idea noi ce l’abbiamo, ma non coincide con le varie analisi condotte, che fanno derivare la causa delle disfunzioni civili nell’estrema litigiosità dei cittadini italiani, sempre pronti a chiedere giustizia per ogni questione facendo appello ai Tribunali. Noi, invece, riteniamo che il problema stia nella complessità e nella sovrapposizione delle norme prodotte dai vari legislatori e dalla complessità del sistema italiano.

In effetti, dal punto di vista della normazione, l’Italia ha molti primati negativi: il numero delle leggi vigenti è molto più alto di quelli degli altri paesi europei, la dimensione delle singole leggi arriva a livelli parossistici, le contraddizioni tra diverse norme sono continue, la durata in vigore è a volte ridotta a pochi giorni[3]. Le leggi hanno una vita disordinata, anche per via delle anomalie dei processi normativi, che determinano distorsioni rispetto al normale ordine delle competenze e delle procedure: come il sostanziale esautoramento del Parlamento o il fatto che, nonostante l’eccesso di leggi, i giudici sono costretti a risolvere questioni importanti, come quelle di bioetica, che il legislatore non riesce ad affrontare. L’inflazione normativa e i difetti della legislazione sono da tempo lamentati e studiati.

Secondo Normattiva[4], un progetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Senato e della Camera dei Deputati – in collaborazione con la Corte Suprema di Cassazione, l’Agenzia per l’Italia Digitale e l’Istituto poligrafico della Zecca dello Stato – che ha, proprio, l’obiettivo di classificare e rendere accessibile al cittadino la normativa vigente, nel 2009, in Italia, il corpus normativo statale dei provvedimenti numerati (leggi, decreti legge, decreti legislativi, altri atti numerati), dalla nascita dello Stato unitario poteva essere valutato in “circa 75.000″ unità.

Ricordiamo tutti i tentativo successivi al 2009[5] di semplificazione che hanno abrogato decine di migliaia di vecchie leggi, decreti e regi decreti[6], ma ricordiamo che per avere un quadro di tutte le norme che regolano la vita di un cittadino e di un’impresa, occorrerebbe aggiungere quelle di matrice regionale, i provvedimenti comunali oltre ai regolamenti di un’interminabile sequenza di enti ed Autorità di regolamentazione e i provvedimenti delle tante autorità indipendenti.

In definitiva, né la Presidenza della Repubblica, né il Governo, né il Parlamento dispone di una banca dati, né un altro qualsiasi strumento di ricerca che consenta ad un cittadino o ad un’impresa di conoscere quanti e quali sono gli atti – non importa di che livello – dei quali si debba tener conto prima di porre in essere una qualsiasi condotta o avviare una qualsiasi attività.

A questo si aggiunge  l’assenza di una funzione chiarificatrice che non è svolta a sufficienza (almeno a stare ai risultati) dagli alti vertici della magistratura.

Ma restiamo alle ipotesi ufficiali, ovvero, degli italiani troppo litigiosi[7].

I passati governi, e l’attuale non sembra avere sposato un linea diversa, ha scelto di affrontare il problema imboccando diretto la strada di smaltire l’enorme arretrato della giustizia civile aprendo la via della conciliazione obbligatoria, prima di addivenire ad un processo vero e proprio. L’intento della conciliazione è di far incontrare le parti e ottenere un accordo fuori giudizio, che levi lavoro ai tribunali. Si può pensare che  il legislatore abbia fatto proprio  il consiglio dato da Benjamin Franklin, “il tempo è denaro” nel suo “Suggerimenti necessari per quanti desiderano diventare ricchi” del 1736[8].

Cosa aspettarsi? Forse alcuni italiana accoglieranno il consiglio dei conciliatori accontentandosi di arrivare ad un onorevole compromesso, ma c’è da scommettere che non saranno in pochi quelli che continueranno nella lite, finché giustizia trionfi? Se così andranno le cose la conciliazione sarà – come sostengono non a torto gli avvocati – un ulteriore appesantimento.  Ma è un altro il punto che mi interessa far rilevare. E’ quello che la strada della conciliazione porta ad consegnare la giustizia ai privati, privandola del carattere di sacralità che, secondo una parte considerevole degli operatori, essa riveste, e spostando la relazione della giustizia come   equità in giustizia  come rapida[9].

Bene, mi basta cogliere tale punto sulla questione e il fatto non può non ricordare per il profondo contrasto tra questo modo di richiamarci alla giustizia, quel che, invece, diceva Sant’Agostino: “Finché dunque, esuli e lontani dal Signore, cammineremo in stato di fede e non ancora di visione, per cui è scritto: Il giusto vivrà per la sua fede, la nostra giustizia durante lo stesso esilio consiste in questo: che alla perfezione e pienezza della giustizia, dove nella visione dello splendore di Dio sarà ormai piena e perfetta la carità, noi presentemente tendiamo con la dirittura e la perfezione dello stesso correre, cioè castigando il nostro corpo e costringendolo a servire , facendo lietamente e cordialmente le opere di misericordia, sia nel prodigare benefici, sia nel perdonare i peccati commessi contro di noi, e attendendo incessantemente alle orazioni  e compiendo tutto questo nella sana dottrina, sulla quale si basa l’edificio della fede retta, della speranza ferma, della carità pura. Questa è per adesso la nostra giustizia con la quale corriamo affamati e assetati verso la perfezione e la pienezza della giustizia per esserne poi saziati[10].

Come si vede facilmente due mondi, due visioni del vivere separati in modo oramai non più riconciliabile. Dalla prima forte discontinuità (ovvero, la giustizia come equità) alla giustizia civile che assume il denaro (nell’aspetto conciliatorio[11]) unico strumento di compensazione ed elemento capace di integrare l’idea del giusto.

Si rinuncia, infatti, ad avere giustizia, chiedendo meno denaro di quello che in realtà sarebbe stato giusto e ciò a causa di una inefficienza dello Stato[12]. Forse adesso sarà più chiaro il tortuoso cammino che abbiamo scelto per dimostrare che se dovessimo sacrificare l’stanza di giustizia ci ritroviamo su una strada insidiosa che può portare con facilità verso una completa equivalenza tra giustizia e risarcimento del danno.

 

 

[1] John Rawls – “Una teoria della giustizia” – Feltrinelli, Milano, 2008.

[2] Cfr.: www.fermareildeclino.it/far-funzionare-la-giustizia-ecco-come in cui è stato esattamente notato che: “Fino a quando ricorrere o resistere in giudizio sapendo di avere torto conviene, i tribunali continueranno ad essere polo di attrazione per cause pretestuose, o facilmente risolvibili diversamente, a danno di quelle serie che invece richiedono l’intervento del magistrato. In Italia vengono iscritte a ruolo 3.958 cause per 100.000 abitanti, il doppio della Germania e il 43% in più della Francia. L’obbiettivo è di avvicinarsi alla media dei Paesi aderenti al Consiglio d’Europa di 2.738 cause per 100.000 abitanti. L’abuso dello strumento processuale non solo rallenta le cause reali ma ingolfa tutto il sistema rendendo inefficienti le procedure e poco produttivi i magistrati sommersi dai fascicoli”.

[3]In tal senso cfr.: Bruno Aprile e la democrazia diretta – www.brunoaprile.ucoz.com/publ/ quante_ leggi _ci_sono_in_italia/1-1–03; G. Scorsa  –  Internet e istituzioni: quante sono le leggi in Italia ? meglio chiederlo a Google che a “Normattiva” – www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/28/…il…leggi/1101193/. La fiera delle leggi – www. rivisteweb.it/download/article/10.1402/22621.

[4]Normattiva, entrato in funzione nel marzo 2010, è  una banca dati pubblica, al sito www.normattiva.it, che si pone l’obbiettivo di raccogliere l’intero corpus normativo in vigore nello Stato Italiano.

[5] Il decreto legislativo 1 dicembre 2009, n. 179 c.d. “salva-leggi” (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246) rappresenta l’ultimo atto di una strategia di politica legislativa che prende avvio con la legge 28 novembre 2005, n. 246 (Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005) e che si è arricchita, nel corso degli ultimi anni, di aspetti problematici e complessità ulteriori.

[6] A fine 2010  sono stati cancellati circa 37500 atti normativi ormai inutili o desueti e il numero delle leggi vigenti è stato portato a circa 10000 ( la media europea  si attesta intorno a 5000).

[7] In tal senso, da ultimo, il Dr. Gianfranco Ciani, Procuratore Generale presso la Cassazione  in una lettera al Direttore del Corriere della Sera del marzo 2014”..  in Italia il problema della Giustizia è reso praticamente irrisolvibile dal numero dei procedimenti che ogni anno si abbattono sui Tribunali. In campo penale si cercherà di risolvere con la depenalizzazione di una serie di illeciti, e sicuramente l’eliminazione sia della Fini -Giovanardi (che eliminava la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti) che della Bossi-Fini (reato d’immigrazione clandestina) saranno d’aiuto. In campo civile ? Si spera che col tempo gli italiani diventino anglosassoni e si risolvano le beghe da sé, mediando“.

[8] Per un’edizione più recente cfr. Benjamin Franklin – Consigli per diventare ricco – Hints to become rich, IBIS 2009.

[9] In senso conforme cfr. G. Lemme – La crisi della giustizia civile, una minaccia per la ripresa – secondo cui “è proprio la lentezza della giustizia ad alimentare le liti: si subiscono le cause, perché questo è un modo per procrastinare per mesi se non per anni il momento in cui si sarà costretti ad adempiere ad un’obbligazione”. Secondo l’autore introdurre forme di mediazione obbligatorie non può risolvere il problema, ma rischia addirittura di aggravarlo in quanto la scarsa tendenza conciliativa degli italiani fa sì che la lite sia vista proprio come lo strumento idoneo a posticipare l’adempimento di un’obbligazione. La mediazione obbligatoria, quindi, si risolve in un ulteriore allungamento dei termini per arrivare alla sentenza e finisce per alimentare il contenzioso invece che deflazionarlo.

[10]  Cfr. www.frasicelebri.it/frasi-di/agostino-dippona; www.agustinus.it/varie/frasi/frasi3.htm. Sulla questione etica si sono espresso anche il primo presidente della Corte di cassazione, Giorgio Santacroce e il procuratore generale, Gianfranco Ciani in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015. Nella relazione del primo presidente si legge: “Il pericolo più grave è rappresentato dalla possibilità che la politica sia asservita alle scelte economiche e che l’economia assurga al ruolo di vera e unica guida delle scelte politiche diventando l’unico parametro di riferimento”, con la conseguenza che il criterio economico penalizzi “l’effettiva tutela dei diritti della persona” garantiti dalla Costituzione. Il procuratore generale, invece, ha sottolineato che, sparite le ideologie, si è arrivati al paradosso di identificare la morale con il diritto penale nel senso che “si passi immediatamente da ciò che è reato a ciò che è lecito in quanto non delitto”. La mancanza di valori autonomi di etica socio-politica dà vita a fenomeni degenerativi per cui è solo il delitto a stabilire il comportamento illecito da quello lecito, con la conseguenza che, tutto ciò che non è penalmente illecito, è corretto. La sfera della responsabilità morale coincide esattamente con quella della responsabilità penale.

[11] Vedasi,  “Analisi del Contratto di denaro dato a frutto e conciliazione –  delle opinioni della giustizia del medesimo” , Del Canonico, Venezia 1814, tipografia Armena di S. Lazzaro

[12] Torna in mente il titolo del film del regista Roberto Schoepflin “Pochi maledetti e subito” o, il detto popolare “meglio un uovo oggi che una gallina domani”.

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